Spiritualità sacerdotale: 2.rapporto con l’Eucarestia
2. Il rapporto di don Andrea con l’Eucarestia (mons. Angelo De Donatis)
Un altro aspetto della spiritualità sacerdotale di don Andrea è stato il suo rapporto con l’Eucarestia. Il sacerdozio ministeriale, infatti, è nato nel Cenacolo, insieme con l’Eucaristia, pertanto l’intera esistenza presbiterale dovrebbe essere vissuta come “vita eucaristica”. Per riscoprire questo legame nella vita di don Andrea ci faremo accompagnare dalla figura dell’apostolo Pietro.
In un momento della predicazione di Gesù in cui molti, tra i suoi discepoli, se ne vanno perché i suoi discorsi sono troppo duri (Gv 6,60), Pietro risponde, anche a nome degli apostoli: “Da chi andremo, Signore? Tu solo hai parole di vita eterna”. Sappiamo che queste parole di Pietro non rivelano che avesse compreso completamente chi fosse Cristo, cosa che accadrà solo dopo gli eventi pasquali. Tuttavia dimostrano una fede in cammino, una fede sincera, aperta a Qualcuno (Tu) più che a qualcosa di astratto. Inoltre dai racconti evangelici sappiamo che Pietro sperimenta in pieno la debolezza della sua umanità e quando sopraggiunge il momento della paura e lo sconforto cade, tradendo il Maestro. Ma anche quello del rinnegamento è un passo importante nel suo cammino di fede, perché sperimenterà, come mai prima di allora, la necessità del perdono di Dio. Sarà rinnovato completamente da questo perdono, tanto da affidarsi a Gesù Risorto che, sul lago di Tiberiade adeguandosi alla sua capacità d’amore, per tre volte lo inviterà a “pascere le sue pecorelle” (Gv 21).
Perché scegliere proprio Pietro come immagine per richiamare il rapporto di don Andrea con l’Eucarestia? Perché a mio avviso l’Apostolo racchiude una gamma vitale (è testardo, passionale, dai facili slanci, a volte brusco) che anche don Andrea ha conosciuto. Lui non ha mai abdicato al suo essere uomo vivendo il suo sacerdozio ed ha cercato profondamente di vivere radicato nel dono di sé. Potremmo dire che ha vissuto eucaristicamente…
“Anche Pietro Signore tu lo hai chiamato due volte. La prima volta disse sì, ma coi fatti dimostrò che era un no. La seconda volta disse sì ma quei no l’avevano maturato. Diceva sì non sulle sue forze, ma sulle tue. E diceva sì non al trionfo, ma a te, il Risorto crocifisso che gli stava davanti. Diceva sì a pascere con il tuo metodo, il tuo stile, sulla tua via, come pastore a immagine di Te pastore, non come pastore a immagine dei signori. Diceva sì a lasciarsi cingere e portarsi dove lui non avrebbe voluto. Anche lui servo sofferente. Signore se vuoi possiamo ricominciare. Se tu mi richiedi: mi ami? Prendo a prestito da Pietro le sue parole, il suo stato d’animo, la sua confusione interiore, la coscienza del suo smacco ma anche il suo slancio infantile e appassionato. Dimmi di sì, Signore: ricominciamo. Chiedimelo: mi ami ancora, mi ami più di costoro, più di te stesso, mi ami sulle mie forze, mi ami sulle tue rovine, forte solo della tua povertà? Sì o Signore. Mi ami disposto a farti cingere e portare dove non vuoi, disposto a essere il pastore che muore, il servo che soffre, obbedisce, non ha successo, è un nazôraios, si accolla la pesantezza del mondo, delle pecore, per presentarsi così a Dio per fare di questo peso, di questa sofferenza, il pane dell’Eucarestia, il germe di redenzione e di risurrezione? Sì o Signore. Ma ho tanta paura. Non amo la sofferenza, l’insuccesso, lo smacco, l’essere non considerato, non cercato, non amato, non seguito, non approvato. Non amo essere secondo, figurati essere terzo o ultimo. Ho paura. Non capisco. Dico sì ma in fondo dentro di me c’è ribellione, mi auguro e penso che non sarà vero, avrò successo, gioie, raccolti. Però intuisco, specchiandomi in te, che non c’è strada che la tua. Tu ammaestrami, dammi luce, dammi animo, dammi forza perché io regga la “tentazione”, non mi sottragga alla croce. Senza di te o Signore non ce la farò mai. (dal diario di Terra Santa, pag 135)
Da queste parole di don Andrea traspare forte il desiderio di una sequela fedele e di una spiritualità di contemplazione. Vivere la vita come seguaci di Cristo non era per lui questione di argomentazioni, di valutazioni umane, di sforzi, di programmi, di ideologie; ma contemplazione di Cristo Gesù che nella celebrazione Eucaristica si offre a noi. Entrando in relazione profonda con questo dono diventiamo persone “cristificate’, ovvero contemplativi in azione! Una spiritualità sacerdotale pensata e vissuta in questo modo diventa allora una spiritualità di presenza e di trasformazione. Di presenza perché celebrando così l’Eucaristia il sacerdote diventa sacramento di Cristo, “sale della terra e luce del mondo” (Mt 5, 13.14). E di trasformazione perché il dono dello Spirito ricevuto nella celebrazione ci apre ad una vita dinamica, in continua crescita, sempre pronta a farsi sorprendere e donarsi.
E don Andrea amava contemplare il Signore nella realtà che lo circondava. Scriveva dalla Turchia: “Finita la preghiera siamo rimasti un po’ in silenzio. Io mi sono diretto verso la punta dello sperone di roccia. Lo spettacolo era ancora più bello. La gioia mi veniva da dentro e da fuori: dentro il Creatore ricevuto nell’Eucaristia, fuori le creature date dal Creatore. Sul mare dei pescherecci gettavano le reti spostandosi lentamente. Pensavo: Dio è generoso. […] Dio ha il cuore aperto e senza confini”.(da Lettere dalla Turchia)
Guardare il mondo con gli occhi di Dio vuol dire avere lo sguardo di un uomo contemplativo. Don Andrea ha cercato di purificare continuamente il suo cuore chiedendo a Dio il dono del suo sguardo. Lo ha fatto in tutte quelle situazioni di sofferenza, malattia, piccolezza, povertà, emarginazione in cui era necessario portare consolazione e cogliere la presenza del Signore nel suo modo tutto singolare di farsi prossimo. Ha cercato di farlo davanti ad ogni divisione che ha riscontrato nell’uomo, nelle famiglie, nelle parrocchie, nella Chiesa. Tra i più lontani e con i fratelli cristiani di altri riti. Lo ha fatto ogni volta che ha celebrato l’Eucaristia facendosi lui stesso pane spezzato per la porzione di gregge che gli era stata affidata…
Ancora una volta ritroviamo questo desiderio di vivere in pienezza nel suo pellegrinaggio in Israele nel 1980. Scriveva: “Ieri sera alle 21 ho celebrato l’Eucarestia nella cappella delle suore della Nigrizia, a Betania. Betania mi ha fatto capire l’Eucarestia, perché l’Eucarestia è Gesù che entra nelle case di Betania, nella casa di Marta e Maria, nella casa di Simone il lebbroso. E’ Gesù che cammina per le stradine mentre i ragazzini giocano e litigano e alcuni lo guardano, si avvicinano per chiedere qualcosa, per salutare. E’ Gesù che saluta i vicini di Marta e Maria, che entra nella tomba di Lazzaro, va a cena da un ex-lebbroso, o lebbroso tuttora, si lascia profumare e accarezzare da una donna, scambia due chiacchiere con i commensali, ride con uno, fa un discorso serio con un altro. E’ Gesù che sale piano piano la salita ripida che attraverso Betania porta a Gerusalemme, si ferma ogni tanto, fa la voce a qualche lavoratore e lo saluta, approfitta del passaggio per fermarsi un attimo da qualche famiglia o presso qualcuno, di cui gli avevano parlato. “Questo è il mio corpo”, che vuol dire? Vuol dire: “Voi siete mio corpo”, voi, proprio voi. I vostri corpi sono il mio, le vostre anime, le vostre case, i vostri figli, il vostro pane, i vostri vini, i vostri canti, le vostre lacrime. Gesù prende il pane, prende l’uomo, prende la nostra stoffa, la nostra carne, la tiene in mano e dice lode e benedizione a Dio e afferma che è corpo suo. E dice “mangiatene”, riaccostatevi a voi perché non siete immondi, lontani, castigati, siete me, siete corpo mio, siete santità, vicinanza, benedizione, arca di Dio, alito di Dio e sua figura. Siate contenti, guardatevi e possedetevi con esultanza, non con paura, angoscia, scetticismo, nausea. E lo “spezzò”: apre i nostri corpi, la nostra storia perché possiamo guardarci dentro, vederne il reale contenuto, la reale sostanza. Ce li offre come nutrimento, come cosa buona che è vita e dà vita perché siamo noi e siamo insieme lui, non più distinguibili e separabili.
“Offerto in sacrificio”, “versato”: i nostri corpi sono colmi di un’offerta, sono il dono totale che è in essi, ed è la generosità di Dio, il suo perdersi per noi e in noi, il suo uscire da sé ed entrare in noi, che è forte come un NO detto a sé e un SI detto all’amore, ed è risurrezione, gloria, vita, vittoria, regno. Nei nostri corpi, nelle nostre case, nella nostra storia c’è il segno dell’amore sacrificale totale, senza calcolo di Dio attraverso Gesù. Siamo offerte di lui a noi stessi, siamo memoria perenne del suo morire, offrirsi a noi, farsi noi, vivificare noi, trasfigurare noi. Siamo davvero il suo memoriale.
Ma guai a ignorare che è il Cristo che passa, che prende i nostri corpi e dice: “È il mio, prendetene tutti”. E’ lui che va guardato e profumato, altrimenti i poveri rimangono poveri, i poveri sono tra noi, ma noi non possiamo offrirgli abbastanza.
L’Eucarestia si celebra così, si celebra a casa del lebbroso, a mensa con Marta e Maria, faccia a faccia con una donna che ti profuma e ti sfiora, tra le mura di mattoni, sotto il sole, facendo corpo con la gente. Questo deve essere l’Eucarestia del prete: altare, chiesa, calice, tovaglia, rito della celebrazione: o ci spingono a questo, conducono a questo, sono cariche di questo, o sono cose morte. O Dio, fammi ministro di questa Eucarestia.” (dal diario di Terra Santa, pag 15-17)
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